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Il logorio del potere

Il logorio del potere (83)

A partire da dopo Tangentopoli, è diventato sempre più difficile districarsi tra le liste di nomi, sigle, partiti e partitini che compongono la schizofrenica scena politica italiana; eppure proprio in questo momento è importantissimo sapere chi sono i personaggi che decidono il destino del nostro Paese ed essere aggiornati sui continui cambiamenti degli scenari politici.

Perché non bisogna mai dimenticare: "il potere logora chi non ce l'ha".

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“La cultura serve ad animare le coscienze. Abbiamo il dovere di trasmetterla anche ai più piccoli” inizia così il racconto della dottoressa Cinzia De Santis sulla nascita dell’associazione “Generazioni senza confini”.

 

Cosa vi ha spinto a costituire l’associazione “Generazioni senza confini”?

"L’associazione è nata nel 2017. L'idea è nata dal desiderio di  aggregare le persone del territorio, creando un’interfaccia fra scuola e cittadini in una zona come quella del rione Cavalleggeri che attualmente è priva d’identità. Oggi si parla solo di degrado, noi stiamo cercando di portare la cultura al centro dell’attenzione del nostro rione. Non è facile portare avanti la nostra azione operativa, poiché non abbiamo una sede per riunirci e vederci. Per svolgere le nostre attività dobbiamo prima preoccuparci di trovare uno spazio che ci ospiti, poiché ci autofinanziamo. Dalla nascita dell’associazione, ogni estate diamo vita ad un villaggio estivo fondato sulla cultura. Negli anni abbiamo trattato temi ludici, letterari, storici e artistici fino ad approfondire la Divina Commedia."

 

Perché lo chiama villaggio e non campo?

"Perché il campo mi ricorda l’accezione dei lager nazisti e mi dà un senso di chiuso e di discriminazione."

In un’epoca come la nostra, dove i social la fanno da padrone, quanto è difficile portare la cultura nella vita dei più piccoli e delle loro famiglie?

"Partiamo col dire che è sicuramente una cosa difficile, ma non impossibile. Dobbiamo farli appassionare, ma questo è possibile anche grazie alle famiglie che sono già predisposte alla volontà di trasmettere la cultura. Attraverso un modo diverso di insegnare, più pedagogico, potremmo affermare che insegniamo una cultura “a misura di bambino”. Infatti, siamo riusciti anche a fargli scoprire la Divina Commedia.

È la magia del teatro che ci consente di animare ciò che si legge, facendo appassionare i più piccoli."

 

Come fate a coinvolgere gli operatori?

"Semplice, li appassioniamo. Una parte sono familiari, altri amici. Insomma chiunque incontro cerco di coinvolgerlo e di convincerlo a darci una mano. Sicuramente c’è la voglia di mettersi in gioco e di fare comunità. Ovviamente prima li formiamo, perché anche questo è necessario per trasmettere al meglio quello che facciamo e per avere degli operatori che siano sempre preparati."

 

Le istituzioni vi sono vicine?

"Abbiamo una interlocuzione istituzionale, alcune volte esponenti delle istituzioni presenziano alle nostre iniziative. Recentemente sono stata invitata a presentare il nostro progetto alla Commissione turismo ed eventi ludici della X Municipalità." 

 

Il vostro ultimo evento si è svolto a Cavalleggeri ed è risultato essere molto partecipato?

"Sì, c’erano tante famiglie e tanti bambini. A me piace definirlo “carnevale travestito”, perché attraverso questi eventi, cerchiamo di trasmettere la gioia di leggere e anche la capacità di assistere ad uno spettacolo in maniera adeguata. Infatti, siamo stati coadiuvati da una scuola di danza, il Progetto di Danza di Cinzia Di Napoli, che ha portato in scena una coreografia sulle note de “L’amica geniale”, grazie ad una fantastica coreografia del maestro Pietro Autiero. Anzi, desidero ringraziarli per la loro presenza e collaborazione. I bambini sono rimasti contentissimi,  si sono divertiti e sentiti coinvolti anche nella fase di preparazione dei costumi a tema".

 

Qual era il tema di questo carnevale travestito?

"La lettura, bisognava travestirsi da personaggi ispirati ad un libro citandone anche una frase."

Il 3 febbraio 2023 le ragazze ed i ragazzi dell’associazione universitaria UdU (Unione degli Universitari) hanno organizzato un convegno intitolato “Vatican Girl: la storia di Emanuela Orlandi” al dipartimento di Scienze Sociali dell’università Federico II di Napoli.

Il principale invitato del convegno è Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, che si è sempre battuto affinché venisse resa nota la verità sulla misteriosa sparizione della sorella Emanuela.

Siamo riusciti ad intervistare Orlandi, focalizzando la nostra attenzione sull'interesse da parte delle nuove generazioni riguardo la storia di Emanuela, su come i nuovi mezzi di comunicazione (una su tutte: le docuserie) siano importanti per diffondere la sua vicenda ed, altresì, le somiglianze con la storia di Mirella Gregori e la proposta di istituire una commissione parlamentare d’inchiesta sulla storia di Emanuela.

 

“Cosa ne pensa del fatto che sempre più ragazze e ragazzi delle nuove generazioni stanno prendendo a cuore la vicenda di Emanuela, che stanno studiando e si stanno informando sul caso e che, soprattutto, stanno scendendo in piazza a manifestare per chiedere che esca fuori la verità su questa orribile vicenda?”

 

 Mi fa molto piacere sapere che i giovani si stanno interessando alla storia di Emanuela. L’ultimo evento a cui ho partecipato è stato all’università Federico II di Napoli, il quale è stato di grande incoraggiamento anche per me perché ho visto affetto e solidarietà nei confronti di Emanuela, ma soprattutto ho visto quella voglia di cambiamento e di giustizia che, per un periodo, è stata sopita. Il fatto stesso di essersi incontrati per raccontare questa vicenda, che va avanti da quarant’anni, fa capire che non ci si deve mai rassegnare. E questo, secondo me, ha stimolato la coscienza delle persone.

Ogni volta che incontro i giovani dico sempre loro di non accettare mai le ingiustizie perché il futuro è nelle vostre mani. Tra voi potrebbero esserci futuri magistrati. Siete voi che potete creare quello spartiacque che serve tra l’ingiustizia della situazione attuale ed un cambiamento importante che serve.

Quando una persona scompare è, prima di tutto, la famiglia che subisce. Per tutto quello che c'è stato in questi quarant'anni di mancanza di volontà di trovare la verità da parte delle Istituzioni e da parte di uno Stato come il Vaticano. Sono queste le cose che fanno arrabbiare noi come famiglia, ma che sicuramente hanno fatto arrabbiare tanti giovani che si sono avvicinati a questa storia.

 

"Secondo lei i mezzi come le docuserie, penso soprattutto a quella prodotta da Netflix "The Vatican Girl", gli articoli online ed i blog quanto sono importanti per far conoscere la vicenda di Emanuela?"

Sicuramente la docuserie Netflix ha influito tantissimo perché la storia di Emanuele era conosciuta in Italia ed all'estero, infondo ci sono stati anche altri documentari. Se n’è parlato spesso. Però una questa serie, grazie a Netflix, è stata vista in 160 Paesi nel mondo e molti giovani hanno avuto una possibilità di seguirla, perché sappiamo benissimo che Netflix ha seguito soprattutto le ragazze ed i ragazzi che si incuriosiscono guardando una serie come questa, che è stata molto seguita e quindi c'è stato un enorme aumento del numero di persone che sono venute a conoscenza di questa storia in Italia e in Europa. Ma soprattutto in tantissimi Stati del mondo che, prima della serie, non sapevano neanche cosa fosse successo e non sapevo niente di questa storia, non sapevo niente del coinvolgimento del Vaticano, dello Stato italiano e tutto quello che c'è stato intorno a questi quarant'anni. Io me ne sono reso conto, e la cosa mi ha stupito moltissimo, dai tanti messaggi che mi sono arrivati già dal giorno dopo l’uscita della serie.

Il 20 ottobre è uscita la serie per la prima volta su Netflix ed i messaggi che iniziarono ad arrivarmi  dalle parti più disparate del mondo, dove non avrei mai pensato potesse arrivare il messaggio della vicenda di Emanuela. Mi sono arrivati messaggi dall'India, dal Sudafrica, da Paesi del Sud America, dagli Stati Uniti, dappertutto. Non c'è stato, forse, un Paese da cui non mi sia arrivato un messaggio di solidarietà e devo dire che tutto ciò dà una forza enorme.

C'è una famiglia che vive questa situazione, che sente l'affetto, la solidarietà della gente. Ti assicuro che è come la benzina per una macchina: il motore va avanti e non si ferma più.

Io non riuscirò mai a fermarmi finché non sarò arrivato alla verità ed avrò dato giustizia ad Emanuela. Perché a quel punto si potrà dire che alla giustizia ci si può arrivare, anche se sono passati quarant'anni, che non abbiamo accettato passivamente questa cosa e che, alla fine, possono passare i decenni, però la giustizia sarà sempre quella che prevarrà su ogni altra cosa. Quindi per questo io non mi potrò mai fermare. Non mi fermerò mai, spero che tutte le persone che fino adesso ci sono state solidali continuino ad esserlo fino alla fine.

 

"Cosa accomuna la storia di Emanuela con quella di Mirella Gregori?"

Prima di rispondere tengo molto a dire che Maria Antonietta, la sorella Mirella, è diventata come un'altra sorella per me e per le mie sorelle. In qualche modo fa parte della mia famiglia.

La storia di Mirella è stata legata dai presunti rapitori che chiedevano lo scambio di Emanuela con Mehmet Ali Ağca, colui che sparò a papa Giovanni Paolo II.

Circa due mesi dopo la scomparsa di Emanuela, venne fuori il nome di Mirella Gregori. Non si è mai saputo, alla fine, se effettivamente fossero legate queste due storie. O qualcuno in qualche modo avesse voluto inserire la vicenda di Mirella nella storia di Emanuela, per motivi a noi sconosciuti.

Purtroppo, quel filone di indagine, quello legato allo scambio con Ali Ağca, non ha prodotto nulla, cioè i magistrati hanno concluso quell'indagine. Diciamo che fu un nulla di fatto perché non sono mai emerse prove al riscontro di quell'ipotesi quindi, probabilmente, anche questo legame tra Emanuela e Mirella è venuto in qualche modo a mancare. Certo quella di Mirella è una storia terribile, come quella di tantissime altre ragazze e ragazzi scomparsi.

A Mirella è rimasta solo la sorella Maria Antonietta perché i genitori sono morti e la loro famiglia era composta solo dalle due sorelle e dai genitori. Con la morte dei loro genitori è rimasta soltanto Maria Antonietta, che non fa altro che aspettare che possa uscire qualche notizia, che gli inquirenti possano riaprire il caso esclusivamente per Mirella, perché sarebbe giusto così, perché magari era una strada completamente diversa e si sono perse tante possibilità di indagare sulla sua storia solo perché, dall'inizio, qualcuno l'ha voluta legare alla storia di Emanuela.

 

“Cosa pensa della proposta di istituire una commissione parlamentare di inchiesta? Come è possibile che venga fatta una tale proposta di inchiesta solo dopo 40 anni?”

 

La proposta di istituire una commissione parlamentare d’inchiesta è una cosa molto positiva per una serie di fattori. Quando nel 2016 ci fu l'archiviazione dell'inchiesta da parte della procura di Roma, nessuno più ha indagato e le indagini sono state portate avanti solamente da noi familiari insieme all'avvocato Laura Sgro.

Il fatto stesso che il Parlamento si occupi di questa vicenda è un’ottima notizia perché può agire come una procura, può fare delle audizioni può ascoltare, interrogare e indagare. Soprattutto può avere accesso alla documentazione riservata alla quale io, come singolo cittadino, non posso avere accesso, ad esempio può avere accesso all'archivio della questura e per cercare quei documenti che non sono mai riuscito a trovare: alcune audiocassette originali dell'epoca, dove era presumibilmente registrata la voce di Emanuela, che non si sono mai riuscito a trovare, mentre una commissione parlamentare d'inchiesta può avere accesso tranquillamente a questi archivi e condurre ottimamente la ricerca. Questo sarà un grande aiuto. Naturalmente io collaborerò anche con loro.

È una cosa positiva che sia fatta dopo quarant'anni perché non è un obbligo da parte del Parlamento aprire un'inchiesta, come quella che si dovrebbe aprire sulla scomparsa di Emanuela, ed è stata una proposta fatta proprio perché ci sono stati tantissimi dubbi nelle e sulle indagini. Mi viene da pensare proprio a quelle situazioni poco chiare che si sono venute a creare proprio da parte degli apparati dello Stato italiano, come i servizi segreti (il Sismi ed il Sisde) e ci sono state tante situazioni poco chiare che riguardano proprio lo Stato italiano.

Il Parlamento italiano potrebbe, secondo me per dovere, fare chiarezza su alcune situazioni. Soprattutto in questo momento, dopo che anche il Vaticano, senza comunicarci nulla, ha aperto un’inchiesta sul rapimento di Manuela ed io non mi aspettavo, così all'improvviso, cioè dopo quarant'anni. Fino ad adesso il Vaticano non aveva fatto assolutamente nulla, neanche un'indagine interna ed ora decide di aprire un'inchiesta sul rapimento, che è un fatto che io devo prendere per forza come positivo. Non so cosa faranno. Come si muoveranno, però potrebbe essere un passo avanti. Forse hanno capito che il silenzio di questi quarant'anni non è servito a nulla, perché non rinunceremo mai a cercare la verità e forse, in qualche modo, ci stanno venendo incontro.

All'inizio io, personalmente, ancora non sono stato contattato dai promotori di giustizia in Vaticano e spero di esserlo quanto prima. Voglio raccontare tutto quello che so, tutti i nuovi eventi che abbiamo raccolto in questo periodo insieme all'avvocato. Questi elementi possono essere importanti proprio per fare un passo avanti verso la verità.

 

“In questi anni quanto la politica ha attenzionato questo caso?”

 

In questi anni la politica non si è interessata più di tanto. Non perché non fosse una questione politica, ma perché, in fondo, in questa storia si sono inseriti i servizi segreti di Stati diversi, non soltanto quelli dello Stato italiano e del Vaticano. Quindi poteva in qualche modo interessare anche la politica ed ha interessato a livello di mie indagini personali, nel senso che quando trovi il collegamento tra ambienti politici, ambienti della criminalità e ambienti del della Santa Sede, capisci che anche la politica, da quel punto di vista, può avere avuto un ruolo.

Io ho sempre detto che dietro la verità sulla scomparsa di Emanuela, c'è un forte richiamo tra Chiesa, Stato e criminalità, quindi la parte dello Stato, cioè la politica, in qualche modo c'è stata, diciamo così.

 

Gli universitari italiani sono costantemente costretti a soddisfare le aspettative sociali ndietro e fuori dal sistema, altrimenti sentono di non valere abbastanza. Queste terribili convinzioni portano ormai sempre più giovani universitari ad avere altissimi livelli di stress e ansia al punto che molti ragazzi decidono di togliersi la vita. Lo scorso 1 febbraio, infatti, abbiamo assistito ad un terribile episodio: una studentessa di soli 19 anni si è suicidata in un bagno della sua Università, la IULM di Milano. L'estremo atto compiuto dalla giovane è stato preceduto da un biglietto in cui la stessa dichiarava di aver fallito negli studi e che non riusciva a reggere più la pressione universitaria.

I suicidi degli studenti universitari purtroppo non sono solo quelli attenzionati dalla cronaca, molti cadono nel silenzio, come quello di Francesco Mancuso, un ragazzo di 22 anni che il 16 gennaio ha deciso di togliersi la vita. Francesco frequentava l’università di Economia a Palermo e di lì a poco avrebbe dovuto sostenere un esame che non riusciva a superare da tempo. Francesco, gli mancavano 5 esami e poi si sarebbe laureato, ma si sentiva in ritardo rispetto al livello richiesto per dal sistema universitario. L’ansia crescente, la sensazione di essere rimasto solo, il senso di sopraffazione rispetto ai tempi ormai stretti per riuscire a non essere inferiore agli altri. Questo è ciò che ha ucciso Francesco e tanti altri giovani come lui: il giudizio sociale e gli standard ideali da raggiungere in ambito universitario.

Per avere una visione più ravvicinata rispetto a tali vicende, il 6 febbraio abbiamo condotto un’indagine intervistando alcuni studenti dell’Università degli studi di Napoli Federico II e dell’Università degli Studi di Napoli L’Orientale. Innanzitutto, agli intervistati è stato chiesto se fossero a conoscenza della notizia del suicidio della ragazza della IULM avvenuto pochi giorni prima. Tutti hanno sentito la notizia e la maggior parte degli intervistati ritiene che la causa del suo gesto sia da ricercare nel malfunzionante sistema universitario del nostro paese. Molti non possono fare a meno di denunciare anche il mancato aiuto e sostegno che non è stato fornito alla giovane, come a tanti altri ragazzi, che hanno compiuto il suo stesso gesto. Chiaramente, da questa domanda, sono poi scaturite riflessioni molto più profonde che palesano  quanto ogni studente senta il peso di un sistema universitario che chiede sempre di ambire all'eccellenza, quell'eccellenza rappresentata dall'ottenimento del massimo dei voti ad ogni esame".

Molti si sentono sopraffatti dall’ansia a tal punto da aver perso l’interesse per il percorso di studi scelto. Alcuni soggetti intervistati, invece, ammettono di aver scelto di frequentare l’università solo per pressione sociale ma che non hanno mai realmente avuto una vocazione per lo studio.

Traendo un bilancio delle opinioni raccolte, sembra che il nostro sia un sistema capace di deteriorare la salute mentale di tanti ragazzi tramite una costante pressione sociale che impone un modello sempre più performativo. Siamo continuamente costretti a soddisfare delle aspettative, a raggiungere dei numeri e talvolta entriamo in competizione con gli altri, non sentendoci all’altezza.

L’università, oltre ad essere un luogo di formazione e preparazione al mondo del lavoro, dovrebbe essere un luogo di aggregazione, di crescita personale e di condivisione. Nessuno dovrebbe sentirsi solo tra le mura di un’università eppure succede costantemente. 

Perciò, abbiamo deciso di chiedere il parere di coloro che questo mondo lo vivono ogni giorno, sulla propria pelle, per ascoltare le loro voci e le loro esperienze  in modo da fungere da paradigma per tutti coloro che vivono questo disagio. Non un solo episodio, ma tanti, troppi episodi quotidiani, come quelli in precenza narrati,  impongono una riflessione sulla necessità di modificare la struttura del nostro sistema universitario, che arriva oggi ad interferire negativamente nelle vite dei giovani.


 

Il 27 gennaio in tutta Italia si celebra il giorno della memoria per commemorare le vittime dell'Olocausto. Questa giornata è stata istituita al fine di ricordare la Shoah, le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte. Per ricordare coloro che si sono opposti al progetto di sterminio e che rischiando la propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati. Venerdì 27 gennaio 2023, per il Giorno della Memoria, il Centro Interuniversitario di Ricerca Bioetica e il Seminario Permanente “Etica, bioetica, cittadinanza” del dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli studi di Napoli Federico II, in collaborazione con l’Ufficio Scolastico Regionale per la Campania, promuovono un’iniziativa di commemorazione, studio e riflessione. Il convegno dedicato al tema “Arte e Shoah. Rappresentare l’indicibile”, si svolgerà presso l’aula magna della Società Nazionale Scienze, Lettere e Arti a Via Mezzocannone, 8 - Napoli e potrà essere seguito sia in presenza che online (https://tinyurl.com/GM2023).

Il Convegno è diviso in due sessioni: la sessione mattutina inizia alle ore 09.00 ed è intitolata «Arte e Shoah», presieduta da Francesco Lucrezi dell’Università degli Studi di Salerno; sarà aperta dai saluti dei Rettori degli Atenei convenzionati. Dopo l’introduzione intitolata “Arte e Shoah: possibilità o impossibilità?”, interverranno Enrica Lisciani Petrini con una relazione dal titolo “Musica e Shoah”, Chiara Ghidini e Gianluca Di Fratta con una relazione dal titolo “Una memoria differente: rappresentazioni della Shoah nei manga”. Nel corso della prima sessione le musiciste Angela Yael Amato e Natalya Apolenskaya eseguiranno melodie ebraiche tradizionali e brani tratti da opere di G. Perlmann, M. Ravel, J. Williams, G. Gershwin. La sessione pomeridiana, invece, è in programma alle ore 15:00 ed è dedicata al tema «Il silenzio della memoria, la voce dell’arte. La parola agli Internati Militari Italiani (IMI)» e sarà presieduta da Lorenzo Chieffi dell’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” e Past Director del CIRB. Dopo l’introduzione intitolata «C’è chi dice no», interverranno lo storico Mario Avagliano con una relazione intitolata “I Militari Italiani nei lager nazisti. Una Resistenza senz’armi”, Gloria Chianese con una relazione intitolata “La resistenza patriottica tra memoria e oblio” e Giuseppe Nicola Tota con una relazione intitolata “I militari italiani «giusti tra le nazioni»: Maurizio Lazzaro De Castiglioni”.

A Napoli, negli anni, è cresciuta l’attenzione nei confronti di questa importante ricorrenza, superando il puro valore istituzionale, diventando un momento di impegno sociale e civile. L’Università Federico II, per esempio, promuove la terza missione, in sinergia con la ricerca e la didattica, che si concretizza in un processo di scambio e collaborazione con le comunità e il territorio per creare empatia culturale su argomenti che ci toccano in profondità, proprio come quello della Shoah. Questo convegno è un’ottima occasione per avvicinare la popolazione, ma soprattutto i giovani, a temi spesso posti in secondo piano , ma che invece sono ancora di grande attualità. Riflettere sull’indelebile ricordo della crudeltà dell’uomo, delle atrocità della guerra e di tutto il dolore che ne è derivato, è indispensabile per evitare di compiere di nuovo gli stessi errori, ma soprattutto per comprendere in profondità la realtà odierna.

Le italiane e gli italiani si sono svegliati più tranquilli la mattina del 16 gennaio 2023 perché, grazie ad un'operazione condotta dalla magistratura - rappresentata dal procuratore di Palermo Maurizio De Lucia e dal procuratore aggiunto Paolo Guido - e dal ROS dei carabinieri, è stato arrestato a Palermo il superlatitante Matteo Messina Denaro.

Finito in manette alle 8.20 mentre stava per iniziare la seduta di chemioterapia alla clinica Maddalena di Palermo, sotto il nome di Andrea Bonafede.

Esattamente dopo trent'anni ed un giorno dall’arresto del capo dei capi di Cosa Nostra Totò Riina, il 15 gennaio 1993.

Nei momenti successivi all'arresto del padrino di Castelvetrano sono nati diversi dibattiti e polemiche sui social. Sono apparse frasi del tipo "Lo hanno preso malato" oppure "Si è fatto prendere per farsi curare", che, però, non riguardano il punto nevralgico dell’accaduto: Matteo Messina Denaro, il presunto boss di Cosa Nostra, nonché "il superlatitante", è stato arrestato e si trova in carcere in regime di 41 bis presso nel carcere dell’Aquila. Infatti martedì 17 gennaio il Ministro della Giustizia Nordio ha firmato il decreto per il cd. carcere duro.

A  Messina Denaro sono legati l'organizzazione e l'esecuzione dei più brutali omicidi di Cosa Nostra. Dopotutto stiamo parlando del braccio armato di Totò Riina.

Tante le sue vittime - chi uccise materialmente, chi su ordine ed altre in cui ha assunto il ruolo di partecipe negli omicidi. Il piccolo Giuseppe Di Matteo, dopo due anni di prigionia, fu strangolato e sciolto nell’acido come ritorsione nei confronti del padre Santino. Il collaboratore di giustizia Santino Di Matteo; Vincenzo Milazzo, capo della cosca di Alcamo di Cosa Nostra, eliminato perché non condivideva la strategia stragista e la gestione autocratica di Riina. Ancora, Antonella Bonomo, fidanzata di Vincenzo Milazzo, uccisa perché era incinta di tre mesi di Milazzo. Fu poi il momento delle stragi di Capaci e di via D’Amelio a Palermo, in cui furono uccisi Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e otto agenti di scorta: Vito Schifani, Rocco Dicilio, Antonio Montinaro, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Clausio Traina. A seguito di questi attentati, che portarono all’arresto di Riina, Messina Denaro fu un sostenitore della continuazione dalla strategia degli attentati, insieme agli altri capomafia Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e ai fratelli Filippo e Giuseppe Graviano.

In seguito, nell’estate del 1993 Messina Denaro fu il mandante delle stragi di via dei Georgofili a Firenze, dove furono uccise 5 persone e ferite altre 37, di via Palestro a Milano, con un bilancio di 5 vittime e 15 feriti, e davanti alle chiese San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano a Roma, dove restarono ferite 22 persone. 

Ebbene, con l'arresto dell'ultimo grande latitante di Cosa Nostra, si può trovare risposta a molti grandi misteri legati alla lotta alla mafia degli anni '80 e '90 del Novecento, soprattutto riguardante il mistero della agenda rossa di Paolo Borsellino. Che cosa c’era, che importanza aveva, questi i dubbi che continuano  ad persistere ancora oggi.

Allo stato attuale è prematuro sperare di avere delle risposte, ma soprattutto non possiamo sapere adesso se Messina Denaro parlerà, dopotutto non lo fecero Riina e Bernardo Provenzano.

Un altro quesito che in tanti cittadini italiani e non si pongono da anni ed oggi ancor di più riguarda l’esistenza o meno di una protezione politica garantita a Messina Denaro

Sappiamo, grazie ad un'intercettazione fatta al fratello dell'ex superlatitante, mentre era in riunione con alcuni suoi uomini, che Cosa Nostra appoggiò Forza Italia alle elezioni politiche del 2006. "Prodi, quel babbu, ci consuma" dirà il fratello di Messina Denaro. Infatti sostennero la candidatura di Antonio D'Alì, uomo - definito da Brusca in un'intercettazione in carcere - molto vicino all'ex latitante e che fu sottosegretario al Ministero dell'Interno durante il Governo Berlusconi dal 2001 al 2006.

Sono ancora tanti gli interrogativi sul ruolo di Matteo Messina Denaro e sul quando si conoscerà la verità. A noi non resta che aspettare, ancora.

In queste ultime settimane molte donne dello spettacolo hanno denunciato pubblicamente di aver ricevuto abusi e molestie nel corso della propria carriera.

“Se vuoi fare questo mestiere devi essere un po’ più disinvolta, ti devi lasciare andare”, “Vuoi fare l’attrice? Allora non sei tu a decidere cosa mostrare di te”, “Devi esercitarti a sedurre me per riuscire poi a sedurre un pubblico”.

Queste sono solo alcune delle frasi che spesso registi e produttori rivolgono alle lavoratrici dello spettacolo in sede di provino, durante le prove degli spettacoli o in momenti di formazione. In seguito alle vessazioni subite, molte di loro hanno riportato  la propria testimonianza tramite l’associazione Amleta.

“Amleta” è un collettivo femminista, composto da 28 attrici, che supporta e trasmette fiducia a tante donne, permettendo loro di raccontare le molestie subite sul posto di lavoro .

Infatti, dalle esperienze vissute emerge l’esistenza di un ambiente lavorativo che sistematicamente discrimina la presenza femminile ponendo in essere comportamenti violenti o sessualmente inopportuni Ad oggi, sono già molte le lavoratrici che hanno raccontato la propria esperienza e si sono unite alla protesta utilizzando sui social l’hashtag #apriamolestanzedibarbablù, con riferimento alla fiaba in cui Barbablù massacrava le proprie mogli.

Dopo la pubblicazione di queste testimonianze sui social le vittime, purtroppo, hanno dovuto fare i conti anche con il fenomeno di violenza verbale. In particolare, tanti messaggi espressione del “Victim Blaming” , processo psicologico riguardante la tendenza a colpevolizzare le vittime/

Per far risuonare la voce delle donne che hanno avuto la forza di parlare, Amleta ha deciso di non limitare la campagna ai social, ma di estenderla anche tramite conferenze.  Lunedì 16 gennaio a Roma, presso la Stampa Estera, si è tenuta la conferenza “Un Metoo italiano, le attrici italiane alzano il sipario sulla violenza” di Amleta e Differenza donna, in virtù della loro collaborazione per la tutela legale di chi sporge denuncia. In quest’occasione Amleta ha diffuso i dati relativi alle testimonianze raccolte: 223 casi di abusi e molestie di cui 207 riguardano donne (circa il 93%). La maggior parte degli abusi riportati alle associazioni sono commessi da registi (41,26%), colleghi attori (15,7%), produttori (6,28%), insegnanti (5,38%). Tali violenze avvengono soprattutto sui luoghi di lavoro, ma molte anche sul web.

Inoltre, si attesta che è ancora molto frequente la tendenza a sminuire i fatti narrati dalle donne sul luogo di lavoro.

L’idea che chi subisce molestie denunci per trarre vantaggi personali o che sia normale dover sottostare ad abusi in alcuni ambienti, sono convinzioni radicate nella nostra società che portano a giustificare costantemente la violenza. Amleta spiega che, in realtà, molte donne denunciano ciò che subiscono, ma, nonostante ciò, non vengono ascoltate. Altre, invece, non riescono a denunciare subito l’accaduto, ma solo dopo tempo. Anche tale attesa è mal vista dalla società in quanto si crede che sia volta al fine unico di ottenere visibilità. Ma le ragioni sono ben altre La nostra società è ancora permeata dalla cultura dello stupro e il primo passo imprescindibile per combatterla è denunciare gli abusi subiti di ogni genere, compresi quelli in sede lavorativa.

Non si deve avere paura di  combattere soprusi, ma bisogna lavorare giorno dopo giorno per creare la giusta consapevolezza riguardo la gravità di ogni forma di  violenza e per far diminuire il pericoloso fenomeno di colpevolizzazione delle vittime.

La fase politica in cui ci troviamo è tra le più critiche di cui abbiamo memoria.

Le elezioni del 25 settembre 2022 hanno dato un risultato netto e, nella storia repubblicana, inedito nei termini in cui si presenta: il Paese è infatti ora governato da una destra estrema, liberista e antipopolare che, per uno di quei casi fortuiti che assumono grande forza simbolica, è entrata a Palazzo Chigi proprio a pochi giorni dal centenario della marcia su Roma.

La nuova maggioranza, già a partire dall’elezione dei Presidenti delle due Camere, ha messo bene in chiaro che non intende cedere di un millimetro rispetto al proprio posizionamento, e l’enfasi messa su tentativi di riforme istituzionali quali l’autonomia differenziata e il presidenzialismo confermano che ci sono rischi reali di smembramento del Paese.

Questo scenario drammatico non dipende da un destino cinico e baro, né è soltanto causato dalla divisione sciagurata nel campo del progressismo, ma è l’effetto finale di oltre un quindicennio di scelte politiche viziate da errori e omissioni.

Il campo del progressismo italiano, per poter contrattaccare, ha bisogno di un totale ripensamento.

È per questi motivi che il congresso costituente lanciato dal Partito Democratico, che vede l’adesione di Articolo Uno, Demos e di svariati indipendenti, si configura come un passaggio che non può essere trascurato.

La cronaca politica ci dice, però, che questo processo si sta aggrovigliando: da un lato c’è sì un comitato che sta discutendo la stesura di una nuova “carta dei valori”, un documento fondativo che dovrebbe costituire la base valoriale del nuovo partito. Dall’altro, però, questo lavoro incontra svariate resistenze: sono in molti che si aggrappano all’identità fondativa del PD, senza comprendere però che il fallimento di tale progetto risiede proprio nell’insostenibilità di quell’architettura.

Sta di fatto che, nonostante la necessità urgente di una ricostruzione dalle fondamenta, la corsa verso le candidature a segretario, la riproposizione del modello delle primarie aperte e l’assenza di modifiche al bizantinismo e plebiscitarismo delle procedure interne, rischiano di rendere questa fase nient’altro che l’ennesima conta interna, che lascerebbe poi l’area del socialismo democratico in Italia – quella in cui il PD è nonostante tutto il maggior soggetto politico – ancora incapace di riconnettersi con la società e rilanciare la propria azione.

Sarebbe molto più utile, al posto della corsa dei nomi, che venissero sospese le candidature e le campagne per la segreteria nazionale del partito; ciò permetterebbe di concentrare il dibattito congressuale sul documento che è in corso di stesura da parte del comitato costituente, la “carta dei valori” del nuovo partito. Non sappiamo ancora cosa ci sarà in questo documento, ma c’è da confidare che venga imperniato su di una rinnovata centralità del pubblico e della politica, a cui spettano il governo dei processi economici e l’indirizzo strategico di quelli produttivi. La stagione del liberismo, che ancora qualcuno difende, è ormai stata condannata dalla Storia: dal Covid-19 che ha trovato argini solo quando il governo del pubblico ha dato priorità alla salvezza delle vite umane, dal PNRR che segnala l’urgenza di una transizione che non può autoregolarsi ma va inevitabilmente governata in un quadro consensuale, e dalla crisi climatica incipiente.

E poi, oltre al piano delle idee, c’è quello della vita interna, burocratica, che ogni soggettività politica ha necessità di regolare. È qui che c’è da fare una delle più nette cesure con il passato: non è più sostenibile l’idea di un partito dai confini permeabili, soggetto alle ondate delle mode politiche, che non valorizza e rafforza i propri spazi di discussione interni. Non si può più rimandare l’abolizione delle cosiddette primarie

aperte, ricostruendo dunque una forma partito che riconosca la centralità degli iscritti nei processi deliberativi.

Infine, c’è un elemento di rappresentazione che non si può trascurare: se la sconfitta del 25 settembre nasce anche da una gigantesca crisi di credibilità, il nuovo partito non può essere la riproposizione dell’esistente neanche in termini simbolici. Non è più il tempo di brodini insapori: in un’epoca così complessa, servono identità chiare, un nuovo nome e un nuovo simbolo, che aiutino a ri-radicare il soggetto da ricostruire all’interno del campo del socialismo democratico, senza ambiguità di sorta.

Lavoro e pace, questa è la radice della sinistra: e, come ebbe a scrivere uno che aveva la vista lunga, “anche quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi tranquillamente all'opera, ricominciando dall'inizio”.

C’è amore tra Elly Schlein e il lavoro? Una delle principali critiche mosse alla parlamentare emiliana, candidata alla segreteria nazionale del Pd, è proprio questa: una presunta ‘scarsa’ attenzione alle questioni sociali in favore di tante battaglie sui diritti civili. Eppure, dalle prime dichiarazioni di Schlein sembra emergere un quadro diametralmente opposto.

Nel Pd che l’ex eurodeputata ha in mente restano centrali temi come il salario minimo ed il congedo paritario.

In una intervista all'Avvenire di qualche giorno fa l’esponente dem ha spiegato come si dovrebbe “da un lato intervenire con una legge sulla rappresentanza come dicono i sindacati, dall’altro però dire che sotto una certa soglia non è lavoro, ma sfruttamento. Mi ha colpito l’identikit dei nuovi poveri tracciato dalla Caritas durante la pandemia: una donna tra i 30 e i 40 anni, italiana con due figli. La risposta non può essere togliere il Reddito di cittadinanza, che è l’unico strumento di lotta alla povertà. Migliorarlo sì, ma dobbiamo evitare di far scivolare nella povertà un altro milione di persone".

Durante un appassionato intervento alla sede della Fiom-Cgil di Bologna, in occasione della presentazione de "La scalata dell'Everest in ciabatte" (libro scritto da Primo Sacchetti in cui racconta la battaglia delle lavoratrici e dei lavoratori della Saga Coffee) la Schlein ha sottolineato come “chi oggi partecipa per provare a segnare anche una svolta rispetto a precedenti scelte ha l'animo di guardare oggi a quali possono essere le prospettive che ci diamo". Schlein ha proseguito citando un episodio del libro legato ad una lavoratrice che ha detto: "Io non chiedo altro: chiedo di lavorare perché il lavoro è dignità". La deputata Pd ha legato questa frase al primo articolo della Costituzione italiana affermando che "la nostra Repubblica è fondata sul lavoro. I costituenti e le costituenti avrebbero potuto metterci qualsiasi parola ed hanno messo ‘lavoro’ non perché pensassero che l'unica questione importante è il lavoro - ha sottolineato Schlein - dopotutto abbiamo tutta la prima parte della Costituzione sui diritti fondamentali, però hanno messo lì il lavoro perché c'è una dimensione che è andata spezzandosi in questi anni, anche nella lettura politica"

È oramai da Giugno che per oltre 73 aziende e 3.300 dipendenti del Regno Unito è partita la sperimentazione di una delle forse più significative forme di innovazione del mondo del lavoro di questi anni: la settimana lavorativa da 4 giorni.

Se già nel 1930 il buon John Maynard Keynes prevedeva che una riduzione dell’orario lavorativo grazie al progresso tecnologico sarebbe stata possibile entro “un paio di generazioni”, il primo traial di introduzione di una settimana lavorativa da quattro giorni (della quale si sente parlare ormai da anni) risale all’Islanda del 2015.

I risultati, in termini di riduzione dello stress e miglioramento del bilanciamento tra vita lavorativa e vita privata, senza comportare alcun calo di produttività per le aziende nella sperimentazione islandese sono ormai una vicenda nota.

Ed è proprio sulla scorta di questi risultati che quest’anno anche Londra ha deciso di percorrere, , su pressione del movimento “Four days global” che ha promosso l’iniziativa in varie aziende, la via della settimana lavorativa breve, con risultati promettenti.

Nel primo rapporto (per quanto parziale poiché redatto dal movimento 4 Days stesso) risulta un incremento dei ricavi per le aziende dell’8% circa, oltre ad un sostanziale miglioramento della qualità della vita per i dipendenti come già visto nel caso Islandese. E se ad oggi attendiamo i risultati dello studio in corso dell’Università di Cambridge, a che punto siamo in Italia?


Ebbene è proprio da questo gennaio che, secondo quanto annunciato recentemente, anche nel bel paese arriveranno sperimentazioni strutturali di settimana lavorativa corta.

L’apripista è Intesa San Paolo che proporrà ai suoi dipendenti la possibilità della settimana lavorativa da quattro giorni (ridistribuendo l’orario di lavoro in nove ore giornaliere, e riducendolo da 37,5 ore settimanali a 36) senza alcuna variazione sullo stipendio.

Il giorno libero, nella proposta dell’azienda, non sarebbe fisso ma scelto del lavoratore (previa organizzazione e concertazione con le necessità aziendali).

La proposta (l’adesione è su base volontaria), che include anche la possibilità per i dipendenti di lavorare in smart working fino a 120 giorni l’anno, pur rientrano nel quadro dei contratti collettivi nazionali di settore, non trova tuttavia l’accordo dei sindacati.

Come riporta Il Sole, infatti, Fabi - First-Cisl, Fisac-Cgil, Uilca e Unisin, nonostante cinque mesi di trattative con la banca, non sono riuscite a trovare un accordo poiché l’azienda non ha voluto estendere queste possibilità anche ai dipendenti delle filiali fisiche, né è riuscita a individuare un accordo con i sindacati circa gli strumenti tecnici atti a garantire il diritto alla disconnessione durante lo smart working.

Al netto del caso di Banca Intesa, resta tuttavia positiva la posizione generale della Cgil riguardo l’introduzione della settimana lavorativa breve.

Il segretario generale del sindacato Maurizio Landini ha infatti espresso il suo sostanziale accordo ad incentivare la sperimentazione anche in Italia in un’intervista a “La Stampa” del nove gennaio di quest’anno.

Landini affronta il tema parlando della manovra di bilancio, ma estendendo il discorso più in generale della situazione del lavoro in Italia. Fiscal drag, precariato, eccessiva tassazione del lavoro dipendente e delle pensioni, part-time involontari, partite iva, disoccupazione giovanile e precarizzazione attraverso i lavoratori delle cooperative che giocano al massimo ribasso. Ma anche la mancanza di un salario minimo, e dell’aggiornamento dei contratti collettivi nazionali e l’estensione delle garanzie previste da questi ultimi ai lavoratori autonomi, rappresentano i principali problemi del mondo del lavoro in Italia denunciati dal sindacalista.

E come dissentire se si considera che in Italia, dati l’Istat alla mano, oltre tre milioni di lavoratori hanno un contratto a tempo determinato e che, nonostante l’inflazione galoppante, il nostro è l’unico paese europeo in cui i salari sono diminuiti anziché aumentare negli ultimi 20 anni.

Questo senza considerare come, secondo l’Eurostat, l’Italia rappresenti il fanalino di coda d’Europa per tasso d’occupazione (è impegnata secondo le rilevazioni di ottobre 2022 il 60.3% della popolazione italiana in età da lavoro, contro un tasso europeo del 70%) .

I numeri certo poi non consolano se si si considera che, rilevazioni l’Istat di questo gennaio, la disoccupazione tra i giovani è al 25,3 %, e il tasso di inattività tra i 15 e i 64 anni arriva al 35%, (con un aumento tra le donne e chi ha meno di 50 anni).

Insomma, per quanto la settimana lavorativa breve rappresenti un traguardo importante, che può beneficiare tanto i lavoratori quanto le imprese ,i suoi limiti restano evidenti, e tanto lavoro rimane ancora da fare per migliorare la situazione occupazionale e retributiva, e quindi la vita di tanti italiani.

Sanità Tà Tà. È tornata la notte della sanità. Ieri giovedì 5 gennaio, dalle 18 a mezzanotte inoltrata, si è tenuta al rione Sanità di Napoli la V edizione della rassegna musicale sotto la direzione artistica di Massimo Jovine, organizzata dalla terza municipalità in collaborazione con la fondazione di comunità di San Gennaro. La notte della musica che chiude il programma natalizio “Vedi Napoli e poi torni” sostenuto e promosso  dall’Assessorato al Turismo e alle Attività produttive del Comune di Napoli.

 

Quella notte che ha unito anni fa la città ed ora è tornata a farlo ancora di più. Grandi artisti di vario genere sul palco in piazza Sanità, dai 99 posse a Rosario Miraggio e nove punti musicali con musica dal vivo e dj set. Tanti siti e luoghi culturali aperti con visite guidate a cura delle associazioni del territorio, negozi in festa ed il quartiere al centro. Tante, infatti, le persone del quartiere che hanno affollato le strade e non solo.  Presenti concittadini entusiasti di rivivere la notte bianca nuovamente e tanti napoletani e turisti, che hanno vissuto per la prima volta l’evento dell’epifania. 

Persone unite, unite dalla musica, quella che scuote il cuore e le coscienze. Quella che in questi anni di assenza non se ne è mai andata davvero, ma che ora era attesa come un bisogno primario. Quella musica che si è riaffacciata nelle case dei napoletani, che ha ridato il sorriso ai tanti balconi riversi sui vicoli, che si tendevano la mano per stare più vicini.  È tornato a pulsare il cuore di Napoli, in maniera viscerale, fuori dalla normale logica binaria di contrazione e rilassamento.  Quel cuore che non può essere imitato da nessuno, perché autentico, in tutte le sue storture. Un quartiere che per una sera ha rappresentato molto di più. Cercando di infilarsi sotto al palco, nel districarsi tra la gente, si incontravano vari volti, varie storie. Tutte così diverse, anagraficamente e culturalmente, che mai si sarebbero incontrate se non lì. Ieri sera quella piazza – come ha ricordato Valerio Jovine durante il concerto – incarnava il simbolo di rispetto della diversità, partendo dai gusti musicali sino alla vita quotidiana. Un inno alla vita all’insegna della musica che rende persone così diverse in fondo così uguali. Tutte sullo stesso piano, almeno per una sera. E così è stato. Questa è stata la magia. Essere vivi, “so vivo”, come dice il titolo di una canzone di Andrea Tartaglia. Ebbene sì, Napoli ieri era viva ed era bellissima.

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