La Macchina di Babele (Porto Seguro, 2021) è il romanzo d’esordio di Angelo Riccioni, giovane scrittore nato a Tarquinia (VT) nel 1990. Benché gli elementi siano quelli propri del genere fantasy, l’autore coglie l’occasione per presentare un’opera che si pone come una riflessione sulla letteratura stessa.
Ambientato nell’Inghilterra vittoriana, il romanzo segue le vicende di Paul, Heath ed Helen Wintertone, tre orfani adottati dalla famiglia Brograft; anzi, da ciò che resta di essa dopo la morte del padre Eberhart (celebre scrittore), della madre Isadora e del giovane Arthur. Non restano che i due fratelli (un vampiro e un licantropo) e le due sorelle (una ninfa e una strega) di quest’ultimo, i quali sembrano celare degli oscuri segreti, come – del resto – l’intero maniero. Grazie a una macchina chiamata Athanor, le creazioni letterarie prendono infatti vita, al punto che la innumerevoli stanze della stessa Brograft Hall pullulano di creature soprannaturali, e i dispositivi magici che permettono di spostarsi in dimensioni fantastiche sono la regola piuttosto che l’eccezione.
Il fatto che sia possibile entrare – letteralmente – in libri, quadri o dagherrotipi (veri e propri ipertesti), non è solo un espediente narrativo, ma concorre a identificare l’arte come organismo vivente, fatto di parti interconnesse. Tema fondamentale è infatti il potere creativo dell’immaginazione nell’accezione coleridgiana, intesa cioè come una ripetizione nella mente finita dell’atto della creazione divina: in tal senso la figura dell’artista è spesso accostata a quella del mago o dello stregone. Altro tema assai importante è quello, tutto gotico, del doppio, così come il senso costante di metamorfosi e trasformazione che permea l’intera opera.
A dispetto delle oltre 400 pagine la narrazione si snoda quasi sempre in maniera agile, alternando alle parti spiccatamente descrittive altre più veloci e concitate, strizzando anche l’occhio al puzzle solving dei punta e clicca d’antan, con i protagonisti chiamati a risolvere enigmi e a capire il funzionamento della casa stessa. Non manca un riferimento alla pop culture: da Buffy the Vampire Slayer a Doctor Who (l’intero maniero, proprio come il TARDIS è decisamente “bigger on the inside”).
La scrittura è ricca ed elaborata, volutamente barocca: Riccioni non è parco di termini ricercati o di aggettivi desueti, e dà vita a complesse costruzioni. Come una colonna tortile, la sua prosa gira e rigira sinuosamente dando luogo a lunghi periodi ricchi di coordinate e subordinate: esemplare, in tal senso, l’esperienza “allucinogena” di Heath. Tuttavia, in questo originale edificio barocco, si intravede il rigore della scrittura scientifica: nel capitolo 27, ad esempio, attraverso i dialoghi dei partecipanti l’autore presenta una vera e propria revisione della letteratura sul tema del vampirismo. Parallelamente, difficile non scorgere nelle minuziose descrizioni dell’abbigliamento,dell'arredamento e dei monili delle “autocitazioni” del suo progetto di ricerca: l’autore sta infatti per concludere il suo percorso di Dottorato di Ricerca in Eurolinguaggi e Terminologie Specialistiche presso l’Università “Parthenope” di Napoli, con una tesi sui gioielli vittoriani. Infine, come non scorgere nell’epilogo un (maldestro) tentativo di plagio perpetrato ai danni di Brograft da Augusto Croce, scrittore – tutto sommato – mediocre e sicuramente meno dotato d’immaginazione del defunto collega?
La Macchina di Babele è un’opera godibile, eccellentemente scritta e fruibile su più livelli: in virtù della complessità e del discorso meta letterario potrebbe scoraggiare il lettore attratto dal richiamo del fantasy, tuttavia chi è desideroso di andare al di là dei soliti stilemi del genere troverà il romanzo d’esordio di Angelo Riccioni decisamente rinfrescante in questa torrida estate. Dopotutto, come egli stesso dice, per bocca del vampiro Salazar, la letteratura «è fatta di sogni, e i sogni irretiscono l’animo umano».