Il 15 marzo di quest'anno, poco più di un mese fa, mi accingevo a pubblicare due interviste realizzate a Napoli, una presso l'ex ospedale psichiatrico giudiziario (opg), oggi occupato e trasformato dal movimento di estrema sinistra in centro sociale con il nome di Je so' pazzo, e l'altra presso la sede di Casa Pound.
Come ho precisato anche agli intervistati, i violenti scontri avvenuti fra alcuni ragazzi dei centri sociali e di Casa Pound il 29 gennaio scorso mi hanno dato lo spunto per realizzare queste due interviste.
Due articoli che non pretendevano di essere niente di più di quel che sono, due finestre aperte su due visioni distinte dello stesso avvenimento; due articoli che non avevano lo scopo di ricostruire i fatti (cosa per la quale è stato avviato un procedimento penale, in seguito ad alcune denunce), né prendere le parti dell'uno o dell'altro schieramento politico; due articoli che non promettevano altro se non un resoconto fedele.
Che ci fosse il desiderio di realizzare un confronto fra i due estremi politici? Assoloutamente no.
Che dai due articoli sia effettivamente scaturito tale confronto? Assolutamente sì, ma non certo per volontà di chi scrive.
Potrei velatamente alludere a quanto accaduto dopo la pubblicazione delle interviste, ma non ho mai amato i giri di parole, specialmente in un articolo di giornale. In sostanza, la doppia intervista non è stata gradita dai responsabili dell'ex OPG e questo perché le risposte dei due soggetti intervistati sono incredibilmente simili. Che tali risposte siano ben calibrate, politically correct, ponderate, moderate, mi pare piuttosto ovvio, ma nel loro essere tanto equilibrate, risultano anche praticamente uguali, o meglio, prendendo in prestito un'espressione usata dagli stessi ragazzi dell'ex opg, sembrano "due facce estreme della stessa medaglia".
Che dietro ci sia qualche oscuro artificio, qualche raggiro, qualche rielaborazione dei discorsi fatti per avere questo risultato? Ancora una volta, assolutamente no (e per fortuna ho le registrazioni che possono confermarlo): le persone con cui ho parlato hanno fatto tutto da sole.
Questo articolo doveva essere, in origine, un'introduzione alle due interviste, ma data l'importanza dell'argomento, ho pensato fosse necessario uno spazio autonomo e, inoltre, ho preferito lasciare le interviste così come le avevo pubblicate la prima volta, senza nessun ritocco, modifica o aggiunta. Tuttavia, in seguito alle richieste che mi sono state inoltrate di eliminare l'intervista realizzata presso l'ex opg occupato, desideravo chiarire, oltre che i motivi per i quali gli articoli sono stati archiviati (anche se non eliminati) per alcune settimane, anche come funziona il diritto di cronaca: una volta ottenuto il consenso degli interessati a queste benedette interviste, vivaddio, il mio dovere era riportare con cura ciò che era stato detto. Fine. Inclusi nel pacchetto, ci sono anche il diritto di critica politica e il diritto di satira, ma questo importa poco, perché in discussione non era ciò che avevo scritto, ma come io avessi scelto di scriverlo, cioè, paradossalmente, il fatto che io avessi voluto ascoltare entrambe le campane. In realtà, il nocciolo della questione è che io non ho l'obbligo di concordare con nessuno le modalità con cui intendo strutturare i miei articoli, gli eventuali commenti che vorrò fare, insomma, il mio modo di lavorare.
In caso contrario, si tratterebbe di propaganda.
In caso di cancellazione dell'intervista, si tratterebbe di censura.
Già.
Se ora, qui, accanto a me e mentre scrivo, ci fosse un Bruno Vespa qualsiasi a chiedermi l'origine di queste righe così ispirate, citerei certamente un passo dell'introduzione di Federico Rampini a Intervista con la storia (edizione BUR), in cui lo scrittore descrive così Oriana Fallaci: "è antifascista, è risolutamente non-comunista, diffida dei cattolici in politica, è avversa a ogni forma di totalitarismo" e di seguito, usando le parole della giornalista stessa: "parlando con un non-comunista, i comunisti italiani avevano un'abitudine odiosa: trattarlo con ironia o condiscendenza, quasi avessero dinanzi a sé un cretino sul quale non era scesa la Pentecoste del marxismo, la Rivelazione".
In tutta franchezza, non credo sia cambiato molto ai giorni nostri.
Per non dare l'idea di prendermi troppo sul serio, preciso che mi permetto di fare la Fallaci dei poveri proprio per la consapevolezza di non essere lei, che i miei articoli non sono i suoi e che non hanno e forse non avranno mai lo stesso peso o lo stesso seguito. Anticipo così eventuali altre polemiche, dal momento che quelle già fatte mi hanno molto stupita, non aspettandomi che queste interviste potessero turbare qualcuno o qualcosa.
Evidentemente, avevo sottovalutato l'importanza dei miei interlocutori o me stessa.
C'è da dire anche che, e mi duole ammetterlo, ormai non siamo più abituati al giornalismo in quanto tale, forse non siamo più abituati ad ascoltare.
Siamo assuefatti a un bombardamento di informazioni dal web, gettate alla rinfusa fra blog che fanno da giornali e giornali che fanno da social, il cui obiettivo resta quello di seguire le mode e le tendenze della maggioranza e ottenere visualizzazioni e condivisioni. Ma il giornalismo non dovrebbe guidare, piuttosto che seguire? Non dovremmo raccontare alla gente anche quello che non vuole sentirsi dire? Certo, l'obiettività delle notizie riportate non va confua con l'oggettività del giornalismo, una chimera, un'illusione anche piuttosto inutile, direi. La differenza tra l'esprimere un'opinione al bar e farlo in un articolo di giornale sta nel dovere che un giornalista ha di superare le proprie convinzioni, agendo secondo l'etica del proprio lavoro, giudicando il prossimo in base alla morale e informando le persone col solo scopo del bene comune.
Non che questo risultato sia facile da ottenere, ma dovrebbe essere l'ideale cui tendere. Cos'è che, invece, oggi guida la penna dei giornalisti (o presunti tali)? Il desiderio di far colpo sulle masse, la solita vecchia brama di successo. Per questo, alcuni movimenti, per il solo fatto di raccogliere un cospicuo numero di consensi, sono abituati ad averla vinta, a giostrare con disinvoltura (più o meno) ciò che li circonda, fosse anche l'informazione, ad essere sempre assecondati, a fagocitare e digerire ogni cosa attraverso l'intestino della politica e, beh, bisogna tenerseli buoni per avere qualche voto in più e qualche "like" su Facebook.
Che questa scia possa essere seguita anche da personalità quali il sindaco e affini può stupire, ma non poi così tanto.
Assaporato il retrogusto amaro delle mie considerazioni, ho riletto le interviste e mi sono chiesta: cosa vuol dire, oggi, essere fascisti o comunisti? Quali realtà questi ragazzi si trovano a vivere in nome della lotta di estrema destra o estrema sinistra? Sono davvero tutti ragazzi, studenti, o ci sono interessi più grandi e burattinai più potenti, capaci di strumentalizzare ogni costola rotta di questi giovani dopo che se le sono date di santa ragione? E le persone che appartengono o accordano le proprie simpatie all'uno o all'altro schieramento, conoscono davvero la storia? Sanno davvero di cosa parlano o seguono semplicemnete delle mode?
E la domanda più importante, nel nostro caso specifico: sono davvero così diverse fra loro?
Per questi miei articoli, ho incontrato ragazzi entusiasti, volenterosi, animati dalla fiamma dell'ideale, ma anche molto sospettosi, guardinghi e immersi totalmente in una guerra che definirei anacronistica. Si impegnano sul territorio con attività per il sociale, in favore dei cittadini (soprattutto all'ex opg, grazie agli immensi spazi di cui usufruiscono), a compensazione delle mancanze della municipalità, ma le loro azioni sono completamente slegate dalla loro politica, cristallizzati come sono in un mondo parallelo, in cui il tempo non è mai passato e la storia non ha fatto il suo corso (e i suoi morti). Somigliano ai giocatori di Live Action Role-Playing (i GRV, giochi di ruolo dal vivo): c'è l'esercito degli elfi e quello dei maghi, solo che qui, al posto degli incatesimi immaginari, si usano mazze da baseball e martelli. Si chiamano "compagni" o "militanti", tengono il pugno alzato o la mano a mezz'aria, combattono per il popolo italiano, per i diritti dei lavoratori. Combattono, insomma, e lo Stato li perseguita o non li riconosce, ma combattono e molti dei loro ideali sono condivisibili, oggettivamente giusti. Tuttavia, come mi ha detto un amico avvocato, una volta, mentre parlavamo di programmi politici, anche Cristo promuoveva l'uguaglianza, la fratellanza, la giustizia sociale, la carità. Si tratta di ideali di massima, ma il problema è quanto si riesce ad essere coerenti con essi e quanto a farli coincidere con la politica. Da questo punto di vista, soprattutto per quanto riguarda la coerenza, temo di essere rimasta molto delusa.
Naturalmente, le opinioni degli intervistati non rispecchiano quelle della redazione né, nello specifico, le mie, ma questo non vuol dire che io non abbia il diritto, anzi il dovere di prendere una posizione, soprattutto su una questione: la violenza non deve mai essere punto di partenza, né di arrivo, non deve mai essere mezzo, né fine, non deve essere mai giustificata, legittimata o approvata.
La violenza non è politica, non è giustizia, non è cambiamento.
La violenza non è mai vittoriosa, ma è solo un modo per rivivere i momenti più bui della storia, per ridursi a strumenti del potere, per essere schiavi.